Quando la tensione sul filo spingeva io lasciavo andare e lui saliva, colorato, sfarfallante ai bordi colorati. Raffaele guardava la salita attonito. Era troppo bello per essere ancorato ad un filo e l’aria era quella giusta che avrebbe fatto salire l’aquilone ben oltre il limite del visibile ad occhio nudo.
Il vento rinfrescava i raggi intensi di quell’estate. Tra scogli e sabbia osservavamo l’ascesa dell’aquilone, anche i bagnanti in lontananza lo scrutavano rimanendo stesi sulle loro sedioline da mare ed accecati dal sole di mezzogiorno, quello che se guardi il cielo ti acceca la vista per quanto luminoso.
Era bello farlo salire ma era la sensazione di possederlo che realmente dava soddisfazione, niente di male infondo se confrontato a chi preferisce tenere un cane al guinzaglio, infondo l’invenzione di un gioco come l’aquilone ci ricorda che possiamo rendere tutto più incantevolmente leggero. Più lasciavo andare e più saliva sicchè ad un certo punto iniziai a ragionare su quanto spago avevo ancora a disposizione. Un pizzico di concentrazione la impiegavo per farlo volere ed evitare lo schianto al suolo, un po’ di sangue freddo invece per decidere di non lasciarlo andare del tutto per la pura delizia di lasciarlo andare da solo. Srotolai lentamente l’ultimo metro di filo, iniziava a tirare parecchio ed era difficile da trattenere saldamente tra le dita quel sottile diametro, era tutto lì, in quei pochi centimetri. Sono le circostanze a rendere universali certi piccoli particolari.
Tutti i pensieri in quel momento erano in quel sottile strato colorato, architettato per volare come un’ala grazie a delle bacchette, lo spago consentiva allora di sperimentare la possibilità di innalzare i propri pensieri, osservandoli con i piedi per terra.
La contemplazione del volo aveva reso possibile conoscere i limiti degli strumenti a disposizione, stupefacenti a prescindere dall’altezza raggiunta. Fatto tesoro di tutto ciò, iniziai quindi a riavvolgere e recuperare lentamente l’aquilone.