Le farfalle di vetro

Giunti in ostello i ragazzi volevano riposare, volevano fare le ore piccole sbronzandosi in giro per il paese. Lo immaginavo e non ne avevo alcuna voglia, quindi con il calar del sole avrei cenato e sarei rimasto in ostello. La giornata però volevo viverla, decisi allora di uscire senza dire nulla a nessuno. Posato lo zaino affianco al letto sistemai il mio beauty case sul comodino e preparai una piccola sacchetta da portare in giro con me, lo stretto necessario: carta e penna, acqua, occhiali da sole ed una banconota. Prendendo lo spazzolino ed il dentifricio decisi di aprire il cassetto per vedere se dentro ci fosse qualcosa, di solito in questi vecchi mobili qualcuno dimentica sempre oggetti antichi. Non trovai nulla se non un foglio di giornale steso ed incollato su tutto l’interno del cassetto, doveva essere una sorta di protezione o qualcosa di simile. “La farfalla di vetro” c’era scritto in un minuscolo grassetto a bordo pagina, era in inglese e non mi sforzai di tradurre ma suonava bene, quasi affascinante.

Passeggiando senza meta un uomo colpì la mia attenzione, aveva il corpo completamente coperto da una lunga tela beige e si mimetizzava bene in quel frenetico fluire ordinato di esseri umani. Persone polvere e rumori mi separavano da lui. Mi avvicinai tenendolo a vista d’occhio, se si fosse alzato non sarebbe stato facile trovarlo di nuovo. Alle sue spalle solo il muro alto dello stesso colore della sua coperta, al suo fianco sinistro una massa di tappeti arrotolati alla ben meglio e sfilacciati lo separavano dalla bottega di un orafo. Rimasi a guardarlo facendo finta di essere interessato alla bottega e mi tolsi gli occhiali da sole così che potesse vedere la direzione del mio sguardo. Il suo era coperto dal telo, aveva in vista solo gli zigomi e la barba che gli ricopriva la bocca, tutto il resto del corpo dava forma a quel telone sbiadito. Ai suoi piedi, per terra, solo una cesta vuota.

Osservando la vetrina dell’orafo pensai che il caldo e la fame mi stavano facendo interessare ad un povero mendicante e allora decisi di entrare per domandare il prezzo di una farfalla fatta di rame e vetro colorato. Un grande tavolo tagliava a metà la stanza, dall’altra parte si intravedeva il retro bottega dove probabilmente vi doveva essere un laboratorio. La stanza era poco illuminata ma quasi fresca. Una candela spenta sul tavolo e due mensole che esponevano altre farfalle riempivano il vuoto di quella bottega. Dentro non c’era nessuno, solo silenzio. Fuori delle persone litigavano ma dopo un po’ riuscii a comprendere che stavano semplicemente contrattando, mi fermai ad ascoltare la trattativa anche se non ci capivo molto, attendevo che entrasse l’orafo o qualche mercante ma non entrò nessuno. Spazientito pensai che non ci stavo proprio con la testa, dovevo semplicemente andare a mangiare qualcosa e poi proseguire la mia visita nella città. Mi accovacciai per vedere se l’uomo fosse vivo, il cappuccio copriva il volto sin sopra il primo labbro e la testa era china in avanti.

Ero a pochi centimetri da lui e sembrava non stesse respirando, piccole decorazioni colorate sulla tunica la rendevano impercettibilmente preziosa. Erano piccole farfalle stilizzate, ciascuna di un diverso colore. Percepii sotto il tessuto la sua spalla, magra ma ben solida e squadrata, la lunga e larga tunica di tessuto grezzo non consentiva di individuarne la reale mole fisica ma l’impressione era quella di un uomo forte. L’uomo non si muoveva. La strada era vuota e forse l’unica di tutto il rione lungo la quale non passava nessuno, solo il suono sordo dei teloni colorati che sventolavano dalle finestre riempiva i vuoti. L’ombra tra le abitazioni dava ragione a chi desideroso di un pò di fresco sceglieva percorsi alternativi al flusso degli abitanti. Alzai lo sguardo, una mongolfiera volava sopra di noi, doveva essere alta nel cielo perchè appariva piccola. Decisi di seguirla ma non appena iniziai a rialzarmi premendo con le mani sulle ginocchia con uno scatto mi afferrò forte il polso. Era vivo. Rimasi immobile ma non intimorito e mi avvicinai di nuovo.

«Sei qui per sentire la mia storia». Disse calmo senza scoprirsi il volto. Mi aveva lasciato la mano, sapeva che l’avrei ascoltato. «Avvicinati e non preoccuparti di prendere appunti, ti ricorderai tutto perfettamente». Sussurrava con un tono di voce costante. Seduto comodo su due grosse tavole di legno, incrociate le gambe, avvicinai l’orecchio verso il vecchio e lui iniziò a raccontare. «Viaggiavamo da mesi nel deserto stellato, non c’erano forme di vita solo granelli di silicio e le scaglie della famosa esplosione. Avevamo perso le tracce del resto della nostra carovana, i viveri erano ormai decimati e qualcuno già proponeva di tornare indietro. Sapevo che non sarebbe stato facile reggere psicologicamente un viaggio così lungo, ma io credevo nella rotta tracciata prima della partenza e sapevo che le distanze erano solo un problema relativo. Il giorno seguente iniziai a meditare se proseguire in ogni caso anche da solo, e così accadde di lì a poco quando scelsero di provare ad intercettare il resto dei compagni alle spalle della nebulosa. Lo chiamavano deserto perchè l’unico tratto totalmente privo di punti di riferimento: nessun campo magnetico e nessun punto cospicuo.

Non c’era bussola che avrebbe potuto indirizzare alcunchè. Solo la consapevolezza di andare dritto ad occhi chiusi consentiva di superare l’ostacolo. Io ce l’ho fatta e quando sono arrivato, qui in paese, nessuno mi ha creduto». L’uomo si interruppe ma io non osai muovermi, la storia non era terminata ed infatti… «Quella farfalla, ancora la ricordo, persino i miei compagni che mi avevano appoggiato all’inizio della spedizione si erano tirati indietro. Codardi. Sono stato il solo a crederci fino infondo». Non sarebbe accaduto due volte, quella storia la stava raccontando appositamente per me e la mia mente era pronta a viaggiare. Dovevo solo rilassarmi ed aprire le orecchie alle sue parole. «Da bambino un vecchio mi parlò di una popolazione di farfalle che saltuariamente appariva tra le dune del deserto, quando ancora era un giardino pieno di frutti deliziosi per chiunque vi entrasse. La leggenda vuole che fossero proprio questi animali a conservarne la fertilità.

Erano farfalle di vetro, venivano fuori dalle sabbie circostanti ed in esse si dissolvevano dopo aver regalato in aria colorati riflessi di luce. Solo in pochi però le avevano viste con i loro occhi e la bramosia di chi ignorava i reali poteri di questi esseri viventi spinse a deturpare tutte le sabbie nel folle intento di catturarle. Di lì a poco il giardino si tramutò in sabbia bollente ed il racconto delle farfalle è diventato leggenda. Di fatto nessuno le hai mai più viste ma io ricordavo bene il racconto di quel vecchio: “si riproducono oltre la nebulosa gialla”, mi aveva assicurato. Per anni ho studiato le mappe stellari ma di quel tratto di cielo non c’era traccia, poi ritrovai un taccuino dove era disegnata la nebulosa blu e compresi allora che nei secoli aveva cambiato colore. Convinto dei miei studi decisi di intraprendere una spedizione per recuperare le farfalle, per vederle. I miei compagni mi dettero credito e partimmo, sono stati caparbi nel seguirmi e nel fidarsi ciecamente di me lo devo ammettere. Non li biasimo se dopo settimane di peregrinaggio senza alcuna parvenza di quelle farfalle abbiano pensato di fare dietro front».

Sembrava che tutto fosse realmente accaduto, lo raccontava con una fermezza tale che mi sembrava maleducato interromperlo. Se mi avesse chiesto due monete per il racconto gliele avrei date volentieri infondo stavo conoscendo anche io la leggenda delle farfalle di vetro che già mi erano apparse in ostello. «Passarono quattro stellate prima che iniziassi a riconoscere lontani suoni di forme di vita, ero al limite del deserto e delle farfalle nemmeno un lontano bagliore. Ero sfinito dal percorso precedente e decisi di ritornare al paese per non rischiare di perdermi da solo nel deserto. Ero tornato a mani vuote per quanto convinto di esserci arrivato molto vicino. Oggi ti racconto questo perchè tu possa sapere cosa è accaduto, non ti chiedo nulla in cambio, solo la tua generosità». Come immaginavo se la sarebbe fatta pagare, decisi di donare l’unica banconota che avevo. Ringraziai e soddisfatto del racconto mi alzai. Era il caso di tornare in ostello e mangiare qualcosa. In quella stretta via ombreggiata il caldo era sopportabile, non si poteva dire lo stesso delle strade principali.

Attraversata la piazza centrale avrei dovuto percorrere il viale dei bazar e sarei rientrato in ostello. Avevo fame ed in giro non si poteva rimanere, osservavo per terra le folate di vento alzare piccolissimi vortici di polvere. Pensavo alle clessidre, non è solo questione di punti di vista ma anche di quanto sono grandi i granelli, che poi forse l’unità di tempo non è data dalla grandezza della sabbia ma dai colori che assume. Così si che sarebbe vero osservare farfalle di vetro, assorbire la luce volando in aria e poi dissolversi come granelli di sabbia tra le dune. Di certo non avrei potuto raccontare ai miei amici quanto avevo vissuto, mi sarebbe dispiaciuto se avessi sentito anche solo una battuta stupidamente ironica e probabilmente mi avrebbe anche irritato. Era il momento di appuntarmi un paio di cose e fare una sosta all’ombra prima di affrontare la strada dell’ostello infuocata da sole, scelsi il gradino del portone di una piccola palazzina. Perchè riparato dalla sabbia che si stava alzando nel vento e pungeva sulle gambe.

Scrissi “è il colore l’unità misura, sabbia” e non appena chiusi il taccuino accadde davvero. Una raffica alzò un piccolo vortice, stavolta però brillava ed era più grosso degli altri, ne attendevo il passaggio seduto sul ciglio della casa mentre mi chiudevo la giacca a vento. Davanti ai miei occhi quel turbine si accese di colori e poco alla volta iniziò a dar forma a grumi luccicanti che presero a volare. Erano centinaia di farfalle di vetro, brillavano e riflettevano colori che mi sembrava di non aver mai visto prima. Rimasi immobile ad osservare e non so quanto tempo sia passato esattamente, quando però si dispersero nell’aria e mi guardai intorno in quel tratto le strade erano stranamente vuote. Sulla giacca a vento ripiegata sulle gambe si era accumulata della sabbia, era coloratissima e di granelli abbastanza grandi da poter essere presi con due dita. Le conservai nella bustina degli occhiali che avevo indossato e mi rimisi in marcia per l’ostello. Non ero scosso perchè forse dentro di me avevo già realizzato che qualcosa di simile sarebbe potuto accadere, d’altra parte mio padre diceva sempre che quando si scrive qualcosa quel qualcosa sta già accadendo.

Iniziavo però a desiderare di stendermi sul letto, la fame mi era passata ed in compenso era sopraggiunta una stanchezza immane. Raggiungendo la camera prestai attenzione a non incontrare i miei amici, non ero agitato ma non avevo voglia di parlare con nessuno. «Signore, c’è un messaggio per lei – mi blocca la ragazza della reception – Una lettera priva di mittente e francobollo, pare che l’abbiano imbucata stamattina poco dopo che lei è uscito. Ho provato a chiamarla ma non mi ha sentita». Presi la lettera dalle sue mani mentre mi fissava, dritto nelle palle degli occhi, pensai che forse non avevano mai ricevuto lettere oppure che avrei dovuto fare qualcosa ma in quel momento desideravo solo salire in camera e così feci. Mi spogliai e steso sul letto con il ventilatore acceso scartai la lettera. Era scritta da una mano precisa e ferma, alcune lettere erano volutamente grandi ad inizio frase e così recitava “Grazie per la pazienza. Conserva la sabbia, è la tua casa e racconta solo a chi vuole realmente ascoltare. Siamo nel vento come tra le stelle, ma soprattutto nella coscienza di chi sa ciò che è vero”. Finì di leggerla e crollai nel sonno.

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